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Le inoppugnabili ragioni del “SI Triv”

Posted by    |   ottobre 15th, 2015   |   No Comments

Ho letto qualche settimana fa un articolo fantastico, in cui si contestano le ragioni della protesta NO TRIV, che a Rimini sto contribuendo a portare avanti grazie all’impegno di tanti privati e associazioni del territorio sulla scia dell’incessante attività di opposizione dei tantissimi movimenti che agiscono a livello nazionale. Recentemente, grazie alla richiesta di 10 Regioni, è stata ottenuta dai movimenti la possibilità di indire un referendum nella primavera del 2016 per contrastare la deriva petrolifera degli ultimi governi italiani. E’ pertanto quanto mai necessaria in questo momento una buona informazione a riguardo.

L’articolo in questione riassume tutti i luoghi comuni attraverso cui parla chi non è informato in materia e vuole screditare (spesso in maniera faziosa) le ragioni di una protesta ben documentata e propositiva. Quindi, per me che voglio informare, si presta ad essere uno strumento perfetto per fare il mio lavoro.

Vi consiglio quindi prima di tutto di leggerlo qui. Nel seguito provvedo a contestare punto su punto (dati alla mano come al solito) le “tesi” degli autori, che poi coincidono con le principali accuse che ci vengono spesso rivolte.

Buona lettura e, chiaramente, se lo ritenete utile condividete grazie.

* * *

“L’Italia potrebbe in pochi anni ridurre di quasi il 50% la propria dipendenza energetica dall’estero.”

Quando numeri e cifre vengono sputati fuori così, senza citare come né vengono calcolati né da quali fonti, si prestano ad essere semplicemente strumenti di manipolazione del consenso, nel migliore dei casi, di mistificazione della realtà nel peggiore. Questo è tanto più vero quando è una delle parti interessate a citarle, il presidente di Federpetroli in questo caso, rifacendosi peraltro a “studi interni”. Per far chiarezza, riferiamoci invece ai dati ufficiali resi pubblicamente disponibili dalle autorità competenti riguardo a riserve, produzione attuale e obbiettivi da raggiungere.

Le riserve vengono stimate dall’autorità competente al rilascio delle autorizzazioni in Italia, la Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del MiSe (Ministero dello Sviluppo Economico), che nel suo rapporto annuale 2014 stima le riserve certe in quasi 76 Mtoe di gas naturale, quasi 80 Mtoe di petrolio. [1]

Per capire di cosa si parla servono due precisazioni:

  • Mtoe vuol dire “milioni di tonnellate di olio equivalente”, un’unità di misura che si usa in campo energetico per confrontare mele con pere, ossia risorse di diverso contenuto energetico (quali appunto petrolio e gas naturale) tra di loro.
  • In campo petrolifero, a livello internazionale le riserve si dicono “certe” quando ad oggi (con l’attuale livello di tecnologia e di conoscenze) si possono estrarre in maniera economicamente conveniente con alta probabilità (maggiore del 90%). Esistono poi delle riserve “probabili”, per cui la probabilità di recupero è inferiore ma comunque supera il 50%, infine quelle “possibili” ben al di sotto del 50%. Ciò si deve fondamentalmente al fatto che più sfrutto un giacimento e più difficile (e costoso) diventa estrarre il petrolio che resta, finché non si decide di lasciarlo dove sta. Seppure la statistica non è una scienza esatta, sebbene le tecnologie effettivamente migliorino col tempo, la politica energetica di uno Stato dovrebbe basarsi su dati certi, per cui qui considereremo solo le riserve definite certe.

Per quanto riguarda produzione e consumi energetici ci rifacciamo alle statistiche di Eurostat, organo ufficiale dell’Unione Europea, che ci dice che l’Italia nel 2013 ha consumato 160 Mtoe di energia [4], producendone da sé circa 37 Mtoe, mentre il resto (il 78% di quanto abbiamo consumato) l’abbiamo importato [3]. Siamo quindi effettivamente molto dipendenti dalle forniture estere, questo non è una novità. Di quanto abbiamo prodotto a casa nostra la parte del leone la fanno le rinnovabili, con una quota di quasi il 64%, mentre petrolio e gas naturale contano per il 16% e 17% della produzione.

Se ci riferiamo ai consumi energetici totali del nostro paese, nel 2013 la produzione nazionale di idrocarburi (circa 12 Mtoe) ha contato per un 8%, meno di quanto viene già prodotto internamente dalle rinnovabili (solare, eolico, geotermico, idroelettrico assieme arrivano a quasi il 13%)  [5]. D’altra parte in questo caso è evidente come l’espressione “non-rinnovabile” si manifesti in tutta la sua rilevanza: le riserve certe di idrocarburi nazionali non basterebbero a coprire nemmeno per un anno i consumi energetici italiani (0.92 per la precisione). Ovviamente ha molto più senso comparare riserve con produzione annua di idrocarburi, per cui ai ritmi di produzione del 2013 queste basterebbero per circa 10.5 anni nel caso del gas naturale, 13.6 nel caso del petrolio.

Per quanto riguarda gli obbiettivi ci rifacciamo a quelli stabiliti dal MiSe nel 2013 attraverso la Strategia Economica Nazionale (SEN) con l’obbiettivo di “riportare entro il 2020 la produzione interna di idrocarburi a quella degli anni ’90”, raddoppiando di fatto la produzione (che arriverebbe a 24 Mtoe/anno) e coprendo quindi la quota di circa il 16% del fabbisogno energetico nazionale [2]. Va da sé che, restando le riserve quelle che sono, l’operazione potrebbe durare per la metà del tempo stimato sopra: 5.25 anni per il gas, 6.8 anni per il petrolio. E’ pura matematica, se produci il doppio le riserve durano la metà.

Questa strategia, prevede il MiSe, garantirebbe una riduzione sulla bolletta energetica quantificabile in circa 5 mld €/anno, la movimentazione di 15 miliardi di € di investimenti privati e la creazione di 25,000 posti di lavoro [2]. Qui arrivano però le contraddizioni, in quanto la SEN si riferisce a riserve potenziali (termine peraltro formalmente non noto in tema di riserve petrolifere) di 700 Mtep, senza ulteriori riferimenti a riguardo. Eppure lo stesso MiSe nel sopra citato rapporto 2014 sulle riserve di idrocarburi [1]  ci dice che, anche considerando quelle probabili e possibili oltre che a quelle certe, le riserve totali arrivano al massimo a 385 Mtoe. Più o meno la metà dunque, ribadendo come quelle certe ammontano invece a soli 146,6 Mtoe, meno di un quarto di quanto stimato nella SEN. C’è qualcosa che non va.

Ma arriviamo al contributo dell’incremento della produzione nazionale di idrocarburi alla riduzione della nostra dipendenza energetica dall’estero, il punto da cui siamo partiti. Per valutarlo raddoppiamo la produzione di gas e petrolio, a parità di altre produzioni (sostanzialmente le rinnovabili) e di consumi totali. Si arriverebbe quindi a produrre come già detto 12 Mtoe di energia in più su 160 Mtoe di consumi totali, per cui il nostro tasso di dipendenza dall’estero passerebbe dal 78% attuale al 70%: una riduzione di 8 punti percentuali, che corrisponde ad un taglio di appena lo 0.09%. Il tutto, lo ribadiamo, per non più di 5 o 6 anni (10-15 se volessimo considerare anche le riserve probabili, 13-19 se volessimo includere anche quelle possibili).

Ma al di là di tutto, torniamo ancora dall’affermazione dell’articolo da cui siamo partiti: dire che la dipendenza energetica nazionale si potrebbe ridurre del 50% grazie all’aumento di produzione di idrocarburi è, semplicemente, falso. Si confonde (volutamente?) con l’incremento del 50% di produzione auspicato dalla SEN, cosa ben diversa. In questo caso infatti, la riduzione della dipendenza energetica del nostro paese non arriverebbe nemmeno all’0.1%.

In conclusione, produrre tutto il petrolio che abbiamo sotto i piedi (con tutti i rischi ambientali che esso comporterebbe) non sposterebbe minimamente la nostra autonomia energetica, e potrebbe durare (nella più ottimistica delle ipotesi) al massimo per 13-19 anni ai ritmi di consumo attuali. Non proprio una strategia degna di questo nome, in un paese che già oggi produce più della metà da fonti rinnovabili e che avrebbe il potenziale, quello si, di incrementare di molto la sua produzione, questa volta in maniera indefinita nel tempo.

Non dimentichiamoci inoltre dei costi più o meno indiretti che ci potremmo risparmiare cambiando rotta. Rinnovabili ed efficienza energetica non inquinano e non contribuiscono ai cambiamenti climatici da cui in futuro dovremo sempre più difenderci e ai quali (non ce ne dimentichiamo) il nostro paese è particolarmente sensibile per via di grandi criticità idrogeologiche (anche dovute ad uno scriteriato consumo di suolo). Per avere un idea di cosa stiamo parlando, la fondazione ENI Enrico Mattei stima che un innalzamento della temperatura media globale di circa 1.15 °C  al 2050 rispetto ai livelli del 1990 (uno scenario che definire ottimistico è poco, dato che tutti gli sforzi internazionali sono attualmente finalizzati a limitare l’innalzamento ai 2°C, mentre si prevede che continuando con le pratiche attuali si possano addirittura superare i 4°C) l’impatto economico redistribuito sul nostro paese possa arrivare a 20/30 miliardi di €/anno, dello stesso ordine di grandezza di un’importante manovra finanziaria [6]. Va poi detto che un recente studio dell’università di Berkeley stima che ogni tonnellata di CO2 emessa abbia dei costi sociali di 220$, dovuti sia al rallentamento dell’economia che della suo tasso di crescita futura [7]. Nel 2013 l’Italia ha emesso 435 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 [8], per cui i conti son presto fatti: in un anno questo corrisponde a costi sociali (si pensi ad es. al sistema sanitario nazionale, al settore agricolo, ai servizi e attività economiche) di oltre 80 miliardi di €.

Inoltre, si deve considerare che le rinnovabili hanno un maggior potenziale per agire da volano di crescita economica e creare posti di lavoro. Un recente studio dell’UKERC (centro per la ricerca energetica inglese), confermato da numerosi altri studi, ha analizzato dati relativi agli investimenti in energia e conseguente creazione di posti di lavoro in USA, UE e Cina, arrivando alla conclusione che energie rinnovabili ed efficienza energetica in media creano un numero di posti di lavoro dieci volte superiore alla generazione elettrica da fonti fossili [9]. L’industria estrattiva è infatti non solo notoriamente un’attività a bassa intensità di manodopera (soprattutto se non qualificata), ma agisce anche da freno per altre prospettive di sviluppo dei territori sui quali opera, primi tra tutti quello agroalimentare e turistico.

Non è quindi questione di essere contro a priori, ma di aver valutato a fondo i pro e i contro di entrambe le strategie e di aver scelto per onestà intellettuale quella che ha il potenziale di essere la migliore per il nostro paese.

“Ma questa prospettiva non piace al popolo “No trivelle”, che si sta mobilitando per bloccare il programma di sfruttamento dei consistenti giacimenti di petrolio in Adriatico.”

Come già ampiamente descritto i “consistenti giacimenti di petrolio dell’Adriatico” semplicemente non esistono, ammontando nel più ottimistico dei casi le riserve di petrolio Adriatico a 4.8 Mtoe, quelle di gas a circa di 73 Mtoe [1]. Tutto ciò a fronte di importazioni annue di energia primaria in Italia di 125 Mtoe[3].

“A capitanare l’ennesimo movimento regressista che si diffonde in Italia sono i Consigli regionali di Marche, Puglia, Molise hanno approvato le delibere per i referendum abrogativi sulle parti normative dei decreti Sblocca Italia e Sviluppo che consentono attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi. A breve arriveranno le analoghe delibere di Abruzzo, Sicilia, Calabria. La chiara intenzione è quella di cavalcare l’ondata di demagogia di “No trivelle” fomentata dalle associazioni ambientaliste.”

E’ ormai evidente da quanto esposto sopra che il movimento di opposizione alla strategia di sviluppo delle fonti fossili nel nostro paese non ha nulla di regressista anzi, può a ragion veduta esser considerato come uno dei movimenti più progressisti presenti a livello mondiale. Sono ben 10 le regioni italiane che hanno formalizzato la richiesta referendaria, su forte richiesta di tantissime associazioni e di una gran parte dell’opinione pubblica, ritenendo poco lungimirante e addirittura dannoso rimanere ancorati al modello fossile in un momento storico in cui le alternative esistono (e da tempo) e promettono una rivoluzione democratica nell’approvvigionamento energetico (quello si che permetterebbe di eliminare quasi del tutto la dipendenza dall’estero) ma anche di rispondere a una delle sfide più colossali che l’uomo abbia mai affrontato: quella di rispondere ai cambiamenti climatici. Si tratta quindi non solo di evitare i danni, ma di cogliere adeguatamente le opportunità che i tempi moderni ci offrono.

Nessuna “demagogia fomentata dalle associazioni ambientaliste” quindi, ma forse uno dei pochi esempi di strategia finalizzata al perseguimento del reale bene comune, in un paese in cui troppo spesso le politiche si fanno solo se utili a grandi interessi e centri di potere consolidato, socializza i danni per privatizzare gli utili. Non si può inoltre non rifiutare quel provincialismo che pretende continuamente di allineare l’Italia a strategie adottate altrove. Dovremmo piuttosto avere il coraggio e la lungimiranza di guardare in casa nostra, alle nostre vere potenzialità, diventando magari noi stessi un modello da seguire per gli altri. L’Italia non è l’Arabia Saudita né lo diventerà mai (come peraltro ci auguriamo), ha altre ricchezze e farebbe bene ad accorgersene e a valorizzarle a dovere.

“C’è di che rimanere sbigottiti. E per tre ottime ragioni: 1) perché parliamo di Regioni in crescenti difficoltà economiche e con una disoccupazione giovanile da capogiro (con le royalties si potrebbero, tra le alte cose, abbassare le tasse locali);”

Nel 2013 le royalties hanno ammontato a un totale di circa 420 milioni di €. Di queste circa il 70% sono andate in varie forme alle Regioni, 290 milioni di euro. Lo Stato italiano ha invece ricevuto circa 79 milioni di € (“costa di più Pogba” – cit.) [1]. Come abbiamo visto sopra, i costi dello “sviluppo fossile” si contano invece in miliardi di € all’anno per la collettività.

Inoltre né le royalties né la “riduzione delle tasse” risolvono il problema della disoccupazione nei territori sfruttati, sempre più martoriati dal punto di vista ambientale, in cui ci si ammala con troppa facilità, senza prospettive di sviluppo alternativo e sostenibile. Non proprio il quadro migliore per rianimare l’economia, per invogliare i giovani a rimanere o i turisti a visitarci. Si prenda ad esempio la Val d’Agri in Basilicata (il “Texas italiano”): di royalties ne sono arrivate in Basilicata e nei comuni interessati negli anni, oltre 585 milioni di € dal 1998 al 2011, ma senza riuscire ad invertire questa tendenza, come dimostrato dalla costante emigrazione. In particolare, va segnalato l’irrisorio impatto occupazionale: 143 unità locali, 668 considerando anche l’indotto [10]. Al contrario, si è già discusso di come le rinnovabili abbiano un potenziale ben maggiore per creare occupazione (anche) giovanile [9]

“2) perché l’alta bolletta energetica pagata dall’Italia per la sua dipendenza dagli approvvigionamenti  dall’estero aumenta i costi delle imprese e ne abbassa la competitività;”

L’alta bolletta energetica pagata dall’Italia si ridurrebbe solo se fosse effettivamente l’Italia a produrre e distribuire pubblicamente l’energia, cosa che non avviene in quanto i giacimenti nazionali vengono affidati in concessione a privati che (dietro pagamento di royalties che vanno dal 4 al 10% della produzione), rimangono proprietari di quanto estratto. Essi sono pertanto liberi di vender la produzione a prezzi di mercato a chiunque sia disposto a pagarli. Il petrolio italiano quindi, nel momento in cui viene estratto, non è più petrolio italiano. Va specificato infatti che anche l’ENI, un tempo azienda pubblica italiana, è ormai privatizzata dal 1995 e il ministero del tesoro e delle finanze ne detiene solo il 30% circa (in maniera diretta e indiretta).[11]

Altra cosa è se si decidesse, attraverso politiche adeguate, di investire sulle rinnovabili: quelle si che sarebbero in grado di tagliare le dipendenze da un sistema di distribuzione centralizzato (e pertanto fuori controllo per il singolo) e di aumentare l’indipendenza energetica italiana. Inoltre non dimentichiamoci che “sole e vento non mandano la bolletta a casa”.

“ 3) perché la riduzione delle bollette avrebbe non pochi effetti (positivi) sui bilanci delle famiglie. «Nell’arco temporale di 10-15 anni –disse tempo fa a Tempi  Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli Italia – l’Italia potrebbe diventare una potenza energetica sfruttando i propri giacimenti a terra e in mare con una soddisfazione del fabbisogno nazionale del 47 per cento. Consideri che dopo l’estrazione vi è indotto di raffinazione, logistica, oleodotti, rete carburanti».”

E’ avvilente doversi ripetere ma è altrettanto necessario farlo. Per soddisfare il fabbisogno nazionale per il 47% come afferma il presidente di Federpetroli Italia (associazione di categorie delle imprese del comparto petrolifero) significherebbe produrre ad oggi 75 Mtep all’anno, ammesso e non concesso che questo sia tecnicamente possibile, per cui le riserve certe ci basterebbero per 2 anni appena. Quindi se anche nell’arco temporale di 10-15 anni l’Italia dovesse diventare una “potenza energetica” (affermazione chiaramente falsa come già ampiamente dimostrato sopra) nell’arco di 12-17 anni dovrebbe tornare coi piedi per terra dato che avrebbe finito le proprie riserve. Qualche anno di sbornia petrolifera, decenni persi per sviluppare le nostre vere potenzialità.

Da ultimo, ribadisco, non stiamo ragionando tra trivelle e vuoto cosmico. L’energia serve per far qualsiasi cosa e “i comitati ambientalisti” lo sanno bene (vedi a fine articolo). Si ragiona piuttosto confrontando le potenzialità di un modello fossile chiaramente destinato al passato con quelle di un modello basato su rinnovabili ed efficienza energetica.

“Intendiamoci, non si può certo trivellare il mare Adriatico senza pretendere l’adozione di misure che riducano al minimo l’impatto ambientale.”

Ne siamo molto grati ai paladini del progresso. Vorremmo però anche sapere come si intende procedere in questo senso, dato che inquinamento cronico e incidenti sono da sempre all’ordine del giorno in questo tipo di operazioni, con particolare incidenza in Italia che detiene nel Mediterraneo il maggior numero di raffinerie e porti petroliferi, nonché il primato di greggio versato nei principali incidenti [13].

“Ma, un conto è imporre alle compagnie l’adozione di tecnologie a bassa incidenza sull’ecosistema e sul paesaggio, un altro conto è gettare a mare (è proprio il caso di dirlo) una preziosa opportunità di sviluppo.”

Si noti che non servono gli incidenti, poiché già in fase di regolare esercizio esistono sversamenti più o meno pronunciati che sommati nello spazio e nel tempo danno effetti ben maggiori rispetto ai disastri. Si stima infatti che circa l’80% degli scarichi di idrocarburi a mare siano dovuti ad operazioni di routine (zavorramento  lavaggio delle cisterne) o da inquinamenti volontari. Secondo il REMPEC (che studia e previene l’inquinamento marino nel Mediterraneo) ogni anno continuano a finire per questo motivo nel Mediterraneo tra le 100 e le 150.000 tonnellate di idrocarburi, ovvero più della somma dei carichi trasportati dell’Erika e del Prestige, protagoniste delle due più gravi maree nere degli ultimi anni nelle coste europee [13]. Questo è tanto più grave in un mare chiuso, dal fondale basso e quindi con minore capacità auto-depurativa come l’Adriatico.

“Ma, evidentemente, per il popolo “No trivelle” – come anche per il  popolo “No Tav” e per tutti i popoli del “No” che hanno ostacolato essenziali opere pubbliche nell’Italia degli ultimi 15 anni – piangere, contestare  e lamentarsi risulta più comodo che darsi concretamente da fare per superare la crisi e tornare ad accettabili standard di prosperità.”

Posso essere d’accordo sul fatto che il NO davanti alle sigle appaia come un messaggio negativo, ma solo a chi non fa il minimo sforzo per approfondire le ragioni della protesta. In ogni caso il “NO” viene spesso usato per motivi pratici di comunicazione, anche se noi a Rimini abbiamo per questo motivo deciso di incarnare fin dal nome un messaggio diverso attraverso la campagna #sosadriatico.

Ma andiamo al grano: è ormai cronaca di come le “essenziali opere pubbliche” in questione si sono spesso rivelate nel tempo semplice opportunità di prosperare per malaffare e corruzione. Essenziali quindi solo per chi si deve arricchire grazie ad appalti gestiti in maniera poco trasparente, anche per via del fatto che spesso le opere in questione si dimostrano inutili alla prova dei fatti, come il caso recente dell’autostrada a 6 corsie Brescia-Milano, vuota [15]. In questo si ripete il triste slogan “privatizzare gli utili, socializzare i danni”. Tutte opere che sommano degrado ambientale e pressione su di un paese già pesantemente antropizzato e a sempre maggior rischio idrogeologico, anche in vista dei cambiamenti climatici di cui le fonti fossili sono tra i primi responsabili. Il risultato è che ormai ad ogni pioggia ci attendiamo alluvioni e disastri, con danni milionari alle attività produttive del paese e alla collettività.

Il modello energetico fossile e il consumo di suolo scriteriato sono le due concause principali della nostra debolezza, che si traduce in minor competitività del “sistema paese” (come ultimamente piace tanto chiamarlo). Debolezza che si trasmette anche alle imprese e famiglie costrette a fare i conti con l’insicurezza ormai strutturale del proprio territorio. E tutto questo in un paese che dovrebbe porre in cima alla lista delle priorità proprio la tutela e ancor più valorizzazione del proprio territorio e del paesaggio, che ne ha reso in passato la meta turistica n.1 al mondo, quella sì un industria diffusa in grado di creare realmente un indotto significativo. Ma d’altronde chi non ha rispetto per sé stesso non può pretendere che gli altri ne abbiano nei suoi confronti, per cui al perseguire politiche di questo tipo, dannose per noi stessi, non sorprendiamoci del sempre più scarso interesse nei nostri confronti da parte dei turisti, quand’esso non si tramuta in un malcelato rimprovero per aver tra le mani un gioiello e gettarlo alle ortiche ogni giorno.

“E mentre l’Italia torna ostaggio della demagogia, la Croazia si prepara a sfruttare l’opportunità offerta dall’Adriatico. Anche la Grecia si sta muovendo. La crisi, i greci, l’hanno conosciuta in modo tragico. E non rimangono più vittime di troppi indugi ideologici.”

La Croazia ha temporaneamente abbandonato i propri piani di trivellazione per manifesta opposizione dell’opinione pubblica a riguardo (a detta dello stesso Ministro dell’Economia croato), rimandando tutto alle prossime elezioni. Nel frattempo due delle compagnie coinvolte avevano già abbandonato i propri piani in due aree di concessione, che non sono nemmeno state riassegnate [17].

E se di demagogia vogliamo proprio parlare, forse è il caso che gli autori si interroghino su cosa significhi di un intero articolo basato su numeri citati in maniera fuorviante e senza alcuna fonte, sui quali si costruisce una faziosa requisitoria su di una questione delicata e complessa come quella energetica.

Per quanto riguarda l’ideologia, come avrete letto ce ne serve ben poca. Si tratta fondamentalmente di scienza, numeri e fisica. Sono lì davanti agli occhi di tutti da quasi 50 anni ormai, e ogni giorno sono di più. L’ideologia è piuttosto quella di chi li vuole continuare a ignorare, in ossequio a leggi farlocche in cui crede solo chi le ha scritte.

Lasciatemi concludere con un piccolo e interessante approfondimento. Guardate questo grafico che parla da solo:

2006-percent-energy-from-oil-inverted-order

Si riportano le percentuali di energia prodotte dal petrolio in diversi paesi europei. Non vi sarà sfuggito come subito dopo Cipro, in pesante crisi finanziaria nel 2013, arrivano i famosi PIIGS. La Grecia è seconda in questa speciale classifica. Le ragioni sono complesse e questo non è il luogo per approfondire (vi rimando all’interessantissimo articolo originale [18]), ma voglio qui chiarire che (petrolio o meno) per prosperare alle economie serve energia a basso costo. E per la semplice legge della domanda e dell’offerta è molto più probabile che questa venga da fonti inesauribili, una volta raggiunto il necessario livello di sviluppo tecnologico (come oggi avviene con le rinnovabili), piuttosto che da fonti in esaurimento. Aggiungiamo che il poter disporre internamente di queste risorse da parte di tutti, proprio come avviene con le rinnovabili, facilita di molto il compito e rende i paesi maggiormente in grado di regolare il mercato energetico, dal quale dipende a cascata quello economico. Possiamo quindi concludere che la Grecia è effettivamente in crisi (anche) perché altamente dipendente dal petrolio che non ha, e farebbe forse bene anche lei ad alzare gli occhi al cielo e guardare il suo sole in faccia.

* * *

Il collegamento tra economia ed energia esiste ed è profondo, questo i “demagoghi ambientalisti” lo hanno capito molto bene ormai da tempo, vediamo se anche gli altri riusciranno a farlo.

Decidiamo quindi a che gioco giocare, ma non prendiamoci in giro e basiamo la discussione su dati concreti. Se ci accontentiamo che il “giochino” degli stati democratici duri altri fino a 20 o 50 anni, allora possiamo anche spolpare le riserve petrolifere fino all’ultimo per poi buttarci selvaggiamente in un medioevo energetico dove il più forte assoggetta gli altri. Se vogliamo essere un minimo più lungimiranti, allora dobbiamo cambiare strada e puntare in maniera forte e decisa (senza se e senza ma) su rinnovabili ed efficienza energetica.

Per stimolare la discussione vi saluto con tre domande che rivolgo idealmente agli autori dell’articolo che ho qui contestato, domande che non possiamo più rinviare:

  1. Che tipo di futuro vogliamo? Più equo e pulito o più corrotto e sporco?
  2. Pensiamo davvero che la nostra società energivora si possa basare in eterno su di una risorsa che, per definizione, è non-rinnovabile? Pensiamo davvero che, al ritmo con cui lo consumiamo, il petrolio possa durare più del sole?
  3. Ci siamo accorti di cosa sta succedendo attorno a noi, del momento storico che stiamo vivendo? Il cambio climatico è reale, se ne parlerà – tutti ci auguriamo – molto seriamente tra qualche settimana a Parigi al COP21. Uno dei principali imputati è proprio il modello fossile, che certamente ha permesso uno sviluppo eccezionale negli ultimi 100-150 anni, ma che non è nato con la storia dell’uomo né è destinato a continuare in eterno. Illudersi del contrario sarebbe non solo colposo, ma criminale da parte di chi ci governa.

Sviluppo è anche capire quando è ora di voltare pagina, il resto si potrebbe piuttosto definire accanimento terapeutico (come qualcuno ha già fatto). Il modo in cui ci spostiamo, in cui produciamo il nostro cibo e la nostra energia dovrà cambiare, che lo vogliamo o no. Si tratta, ancora una volta, di essere propositivi e costruttivi (al di là del NO nel nome). Si tratta di guardare al futuro e di mettersi a lavorare seriamente per darsi un’opportunità reale di sviluppo, al di là degli slogan che non trovano riscontro alcuno nella fisica. Tutto il resto sono chiacchiere di chi, ancora una volta, ha da guadagnarci alle spalle di tutti noi.

 

FONTI:

Ministero dello Sviluppo Economico: riserve e obbiettivi di produzione Italiani

  1. http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/stat/ra2014.pdf
  2. http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/normativa/20130314_Strategia_Energetica_Nazionale.pdf

Eurostat: produzione, importazione, consumi di energia nell’UE

  1. http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Energy_production_and_imports
  2. http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Consumption_of_energy
  3. http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Renewable_energy_statistics

Impatti economici dei cambiamenti climatici:

  1. http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/Cambiamenti-climatici-Italia-cosa-sappiamo-veramente
  2. http://news.stanford.edu/news/2015/january/emissions-social-costs-011215.html
  3. http://www.greenreport.it/news/clima/clima-2014/

Potenziale occupazionale delle fonti rinnovabili

  1. http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/rinnovabili-efficienza-energetica-creano-delle-fonti-fossili/

Dossier sulla Val d’Agri

10. http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/dossier_petrolio_val_dagri.pdf

ENI azionisti di controllo

11. http://www.eni.com/it_IT/investor-relations/eni-borsa/azionariato/partecipazioni-significative/partecipazioni-significative.shtml

Inquinamento petrolifero:

12. http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/11/30/dieci-motivi-per-dire-no-alle-estrazioni-di-petrolio-in-italia/431482/

13. http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/Dossier_Legambiente_-_Texas_Italia_0000001368.pdf

14. http://www.cleanenergies.it/Portals/0/Fonti_non_rinnovabili_impatto_ambiente.ppt

Autostrada Milano-Brescia

15. http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_settembre_11/autostrada-vuota-tre-lezioni-brebemi-d61ce21a-3987-11e4-99d9-a50cd0173d5f.shtml

Dietro-front sulle trivellazioni in Croazia

16. http://www.qualenergia.it/articoli/20150729-trivellazioni-mare-croazia-due-societa-rinunciano-concessioni-italia-si-chiede-moratoria

17. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10/01/trivellazioni-in-croazia-la-realpolitik-alla-fine-trionfa-su-tutto-anche-sui-petrolieri/2081834/

Energia e crescita economica

18. http://ourfiniteworld.com/2015/07/08/what-greece-cyprus-and-puerto-rico-have-in-common/